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Se volessimo essere più corretti, il titolo giusto sarebbe “una barriera artificiale ai flussi di beni tra due o più paesi è per sempre?”. Tuttavia è molto più semplice indicare questa condizione con il nome semplice e stringato di Dazio.

Per dare un senso a ciò che le cronache ci stanno raccontando in questi mesi tra i mercati globali (in particolare statunitense e cinese), dobbiamo fare un piccolo passo indietro e capire in concreto la storia di questa barriera economica.

Già in epoche pre-cristiane si utilizzavano tributi per il transito delle merci da e per le città, costituendo una delle principali entrate per l’Impero; nel medioevo furono numerose le imposte sul mercato e sul transito che i singoli Re o Imperatori imponevano per arricchire le proprie casse: è questo il momento storico dove la struttura del dazio prende una forma assimilabile a quella che ritroviamo al giorno d’oggi.  Andando “avanti veloce” nella linea temporale, l’Italia unita, verso la metà del XVIII secolo, introdusse l’uso del dazio (unita alla dogana) per proteggere le nascenti industrie nazionali: il protezionismo iniziò a diffondersi a discapito del libero scambio. Dopo la distruzione dei due conflitti mondiali nacquero sempre più trattati economici tra le Nazioni mondiali (CECA, CEE, NAFTA, ASEAN, SACU), con l’esigenza di andare oltre le tensioni belliche e di creare un clima favorevole per il commercio e lo sviluppo economico mondiale.

La storia ci dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) ricordare gli errori del passato, tuttavia le dinamiche che si stanno sviluppando in questi mesi tra gli Stati Uniti e la Cina sembrano gli echi di un protezionismo che la storia ha già visto in passato.

Cosa sta succedendo quindi? Trump, 45° Presidente degli Stati Uniti, da inizio 2018 ha introdotto dei dazi all’import cinese su circa 1300 prodotti (alluminio e acciaio sono stati i più colpiti) per un valore commerciale di 50 miliardi di dollari. In risposta a questa mossa, la Cina ha messo sul piatto prelevi su circa 128 miliardi di dollari di prodotti americani. In sostanza dal 2018 si è innescata una vera e propria escalation di dazi sui prodotti americani e cinesi.

Il piano di Trump è molto semplice e verte sul cambiare le regole del gioco degli scambi globali, indebolendo da una parte il ruolo di arbitro super partes del WTO (l’Organizzazione mondiale del commercio) e dall’altro ridurre lo squilibrio commerciale con la Cina. Quest’ultima è ancora un’economia non di mercato e si avvale di pratiche scorrette, come il dumping (quando una Nazione esporta merci a prezzi molto più bassi di quelli praticati sul mercato di un’altra Nazione) o le acquisizioni forzate di conoscenze proprietarie. La sua esplosione industriale ha spiazzato intere filiere produttive nel mondo avanzato (USA in primis), creando la perdita stimata di circa 1 milione di posti di lavori nel settore manifatturiero.

Ma la risposta a questo squilibro è veramente il protezionismo? Questa reazione che in molti riterrebbero giusta e doverosa è in realtà controproducente per la stessa economica a stelle e strisce e fortemente destabilizzante dal punto di vista geo-economico su scala mondiale: facendo un esempio, imponendo dazi sull’acciaio e l’alluminio cinese, si favorisce la siderurgia americana ma si penalizza il settore manifatturiero domestico che si rifornisce di metallo (prevalentemente dalla Cina). Un altro esempio, molto attuale, è il divieto di rifornimento delle componentistiche interne per i device targati Huawei: questa mossa ha determinato la reazione forte della stessa azienda che dichiarato che istallerà un sistema operativo proprietario (non più made by Google) e che i fornitori privilegiai non saranno quelli americani; in sostanza i produttori di hardware e software americani non potranno più rifornire il prossimo più grande produttore di smartphone dopo Samsung. Un risultato che penalizza più gli Stati Uniti che la Cina.

Le barriere non indeboliscono unicamente l’economia domestica ma anche quella dei partner esteri: il FMI nel 2019 ha tagliato le stime di crescita dello 0,4% proprio a causa della tensione tra USA e Cina; e le previsioni dei prossimi due anni non sono positive se si mantengono le attuali condizioni doganali.

In questo effetto dominio negativo, tuttavia, dobbiamo segnalare l’importante risultato dell’accordo commerciale tra Europa e Giappone. In un clima di chiusura, l’Europa e il Paese del Sol Levante, dal 1° febbraio 2019, hanno eliminato dazi sul 90% dei prodotti commerciati. L’export italiano è cresciuto del 17% verso il Giappone, dove il mercato alimentare è in prima posizione come crescita e sviluppo +47%.

Questo è un esempio di come i rapporti tra due economie dovrebbero tendere, ma è indubbio che in questo momento sussiste una grande incertezza, che già di per sé blocca commesse e investimenti all’estero. Ma il vero pericolo è quello di cadere in una spirale di misure e contro-misure protezionistiche ancora più dure e destabilizzanti, cioè in una guerra dura commerciale. In quel caso, come insegna la storia, sarebbero a rischio gli stessi rapporti economici e politici tra le nazioni.